Commento al Vangelo – Uscire di casa e annunciare con la vita

 I discepoli erano chiusi in casa per paura. Tutto un guazzabuglio dentro: paura dei capi dei giudei, dei guardiani del tempio, dei romani, della folla, di se stessi. E tuttavia Gesù viene. In quella casa dalle porte sbarrate, e sta in mezzo a loro. Non accusa, non rimprovera, non abbandona, ma si ripropone, si riconsegna a discepoli che non l’hanno capito, fragili e impauriti, li ritrova ancora paralizzati dalla paura. Nel vangelo la situazione di morte è comunitaria e riguarda il gruppo dei discepoli. E morte, in questo caso, significa smarrimento, paralisi, non saper cosa fare, paura, privazione del passato e assenza di futuro. Quando in una comunità si insinua la sfiducia e quando la sfiducia diviene la lente con cui si guarda gli altri o un altro, allora la comunità è a rischio di implosione. Si mostra a loro e a Tommaso con i segni delle sue ferite, il punto più grande del suo amare. Alla fine Tommaso si arrende alla pace, quella invocata da Gesù per tre volte. Percepisce di essere nel Tutto, già partecipe della Vita, di una luce rigenerante, per questo non ha più bisogno di toccare. Sta già bruciando nella fornace della Luce, che motivo può avere toccarla?

“Mio Signore e mio Dio”. Niente possesso, solo partecipazione.

Tommaso riconosce di essere amato, gli basta subito confessa la fede in Gesù quale Signore e Dio. Gli basta il dono di pace e il segno di amore incondizionato di sempre.

 

   Vi mando, dice Gesù, prolungate la mia missione, ricevete lo Spirito Santo

Condonare il passato ingiusto delle persone, fate crescere una responsabilità in tutti e per tutti. E’ possibile in questi tempi una certa confusione: come è facile che una vita interiore sia del tutto mondana e una vita spesa nella fatica e nel sudore, sia invece veramente interiore! Quello che conta e decide la qualità della vita è l’intensità dell’amore e non la capacità di isolarsi e di astrarsi dalle miserie del mondo. I discepoli sono usciti in missione facendo nascere tante piccole comunità nelle case, con uno stile particolare, come leggiamo dagli Atti degli Apostoli (Atti 4,32-35).

   Questo è lo stile

Si parla di “perseveranza”: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere.” Perché ci sia perseveranza occorre il lungo respiro della passione, dell’impegno in qualcosa che si ritiene essenziale.

La prima perseveranza nell’insegnamento degli apostoli comporta l’annuncio dell’evangelo quale fondamento della decisione di fede e un approfondimento di tale annuncio tramite un’istruzione più articolata. L’ascolto della Parola è momento essenziale di una comunità investita dalla forza dello Spirito. Il plurale “insegnamento degli apostoli” indica che l’incontro con la Parola avviene in comunità. Comunità di fratelli e sorelle alla pari.
La seconda “perseveranza” si dà nella comunione. Il termine usato indicherebbe la condivisione e la messa in comune dei beni ed è da collegare al fatto che i fratelli “stanno insieme”. Questa espressione indica il trovarsi concordi, da parte di tutti i credenti, poggiando sullo stesso fondamento, sulla medesima fede; da qui una concordia che sfocia anche nella condivisione dei beni materiali e indica l’unità nella fede e la comunione della carità e nella giustizia. Mai dimenticare le arre scartate e dimenticate nella pandemia, far applicare i trattati di non proliferazione delle armi nucleari, avviare processi di riconciliazione prima di fare affari con la Libia, con la terra santa, lavorare per la pace in Sud Sudan, in Libano, in Caucaso, in Siria, nella Penisola coreana, in Myammar…
La terza “perseveranza” è quella della “frazione del pane“. Lo “spezzare il pane” è memoria dei pasti durante i quali Gesù ha mangiato con loro in amicizia e con i peccatori che hanno accolto la notizia del Regno. Questo trovarsi a mangiare il pane eucaristico significa che la vicenda con Gesù non è finita, ma continua. Questa “frazione del pane” celebra la presenza del Risorto, che ha mangiato di nuovo con loro, offrendo loro un perdono incondizionato nonostante il tradimento.

“Ricordate Oscar Romero? Un attimo prima che venisse ammazzato disse: qui, in questo calice, c’è del vino che attende di diventare sangue. E si abbatté su di lui una scarica di mitragliatrice.

Roger Garaudy diceva ai cristiani: Cristo è nel pane. Però ricordate che i discepoli lo riconobbero allo spezzare del pane. Se non c’è frantumazione del nostro pane, della nostra ricchezza, del nostro tempo, difficilmente i discepoli lo riconoscono. (…). Il frutto dell’eucaristia dovrebbe essere la condivisione dei beni… Le nostre eucaristie dovrebbero essere delle esplosioni che ci scaraventano lontano e, invece, il Signore dopo cinque minuti ci rivede ancora lì dinanzi all’altare. (…) Chi si comunica dovrebbe farsi commensale di ogni uomo. (…). (don Tonino Bello)

Poi c’è la perseveranza “nella preghiera“, che è la base dell’intera vita comunitaria. E’ la preghiera che garantisce un intreccio tra ascolto della Parola, celebrazione dell’Eucarestia, pratica della carità nella vita.
“Certo, nelle nostre giornate, esistono minuti particolarmente nobili e preziosi, quelli della preghiera e dei sacramenti. Se non esistessero questi momenti di contatto più efficienti e più espliciti, l’afflusso dell’Onnipresenza divina e la coscienza che ne abbiamo diminuirebbero ben presto; e giungerebbe il momento in cui la nostra più attiva diligenza umana, senza essere assolutamente perduta per il Mondo, sarebbe per noi priva di Dio. Ma, concessa gelosamente una parte alle relazioni con Dio, incontrato, osiamo dire, “allo stato puro” (e cioè in quanto Essere distinto da tutti gli elementi di questo Mondo), come temere che l’occupazione più banale, più assorbente, nonché quella più attraente, ci costringa ad uscire da Lui? Ripetiamolo: per opera della Creazione, e soprattutto dell’Incarnazione, niente è profano, quaggiù, per chi sa vedere. Anzi, tutto è sacro per chi distingue, in ogni creatura, la particella di essere eletto sottoposta all’attrazione di Cristo in via di consumazione. (…) Mai, in nessun caso, «sia che mangiate, sia che beviate», … acconsentite a fare alcuna cosa senza averne riconosciuto prima, e senza ricercarne poi, fino in fondo, il significato e il valore costruttivo in Cristo Yesu. (…) Dalle mani che la impastano fino a quelle che la consacrano, la grande Ostia universale dovrebbe essere preparata e maneggiata solo con adorazione”. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino,  pp. 53ss

 

Con queste perseveranze i discepoli compiono la missione di testimonianza, che si concretizza nel fatto che ogni giorno si aggiungono nuovi credenti e il popolo guarda con simpatia questa nuova realtà.

Concludo con le parole di Papa Francesco – Evangelii Gaudium n. 271. “È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: «sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,16), e «se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di vincere «il male con il bene» (Rm 12,21), senza stancarci di «fare il bene» (Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando «gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano «il favore di tutto il popolo» (At 2,47; cfr 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole “sine glossa”, senza commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo”.

 

Preghiera

Gesù, Signore della vita,

tu che conosci non solo il buio della morte

ma anche tutti i meandri

dei nostri «inferni›› quotidiani,

accogli questi scampoli di speranza

che ancora ci restano.

Come un giorno un padre disperato

ti disse di credere

ma ti chiese pure di venire incontro

alla sua incredulità,

anche noi ti diciamo che ostinatamente oggi speriamo,

ma aspettiamo che tu venga incontro

alla nostra disperazione.

Avranno futuro i nostri ragazzi?

Crederanno nell’amore questi giovani

indifferenti e cinici?

E ci sarà mai pace sulla terra?

E l’uomo sarà mai guardato dagli altri uomini

con i tuoi occhi

pieni di compassione, di meraviglia,

di solidarietà e fiducia?

E la tua Chiesa, anche oggi fin troppo schiava

della pesantezza delle sue istituzioni,

quella Chiesa da cui tanti, delusi, si allontanano,

riuscirà mai a essere evangelica,

protesa solo ad annunziare te e il tuo amore?

Gesù, le nostre «porte›› sono chiuse,

sbarrate dalla « paura ››, ma tu «fermati in mezzo a noi»,

mostraci che nessun chiodo ti crocifigge per sempre,

e che la vita ha vinto ogni morte.

A questa generazione che non crede in nulla

e che di nulla si preoccupa

se non di economia e furti legalizzati,

a tutti noi, chierici e laici,

tu dici di smetterla di essere << increduli ››,

ma fedeli all’amore, alla bellezza, alla verità

che in te, Signore, hanno preso volto.

È appesa a questa attesa di te ogni nostra speranza

<< di avere vita nel tuo nome ››,

perfino l’umile desiderio di annunziare al mondo

che tu sei vivo e che anche ogni disperato può esserlo.

Basta che si apra con tutto se stesso al calore della Vita

che sei tu, «mio Signore e mio Dio ››,

morto e risorto per noi.

 

Felice Scalia